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È l’estate del 2008. Sono
libero. Pochi soldi. Molto tempo.
È
il tempo che adoro, quello fatto di niente, che posso dedicare
alla ricerca di nuovi spunti per dipingere. |
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Questo
problema, di dover cercare sempre nuove motivazioni, questo
suo riproporsi, un po’ monotono e quasi meccanico, può
darsi che sia qualcosa di connaturato al mio tipo di ricerca,
basato necessariamente sull’alternarsi di due vite differenti:
quella con un lavoro salariato e quella senza.
La seconda da poter dedicare, volendo, persino alla pittura. |
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Anni
fa, quando la mia vita era dedicata soltanto al dipingere, mi
trovavo ugualmente ad affrontare il problema della ricerca di
nuovi temi.
Ma i lunghi periodi di inerzia e inattività erano a tal
punto tutt’uno con le fasi produttive, da non avere nemmeno
l’impressione che le serie fossero così distinte
l’una dall’altra. Vita e lavoro fluivano senza soluzione
di continuità. |
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E
in effetti non d’altro parlavo, se non delle visioni
sprigionate da quel continuo fluire.
Del viaggio, della trasformazione, dell’incessante dissoluzione
interiore.
Ora è tutto più evidente, più scandito.
Con i tempi delimitati, tutto si semplifica e appare più
chiaro. |
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E
dunque, sull’orlo dell’estate, mi ritrovo a farmi
le solite domande, quasi le stesse che mi pongono gli altri.
Ma insomma, che fai? Com’è che stai in giro senza
far niente? Mi chiedono. Mi chiedo: che farò? Perché?
E soprattutto: ma a chi interessa? Per Chi lo dovrei fare?
Insomma: che senso ha, nel mondo in cui vivo, ho vissuto,
sto vivendo, tracciare segni colorati su qualche misero foglio
di carta? |
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In
un mondo dove una enorme parte della ricchezza del pianeta
viene usata per mantenere armi e costruirne sempre nuove?
In un mondo dove solitudine e debolezza sono una colpa?
Dissipazione irrimediabile delle risorse naturali; paure e
ignoranza diffuse consapevolmente per controllare pensieri
e speranze; dominio privato dell’informazione globale;
da un lato immensi privilegi di pochi; dall’altro masse
enormi di persone preda di soprusi, malattie, povertà,
calamità naturali.
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Una
visione deforme, patologica.
Ma
per chi, se non c’è più nessuno che abbia
cinque minuti per guardare un tramonto?
Figuriamoci un quadro.
Figuriamoci sé stessi, a cui quasi sempre un quadro
rimanda. |
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Spesso
l’arte non è altro che produzione di beni alla
moda, orientata a solleticare la vanità di pochi riccastri,
sospesa tra vuoto formalismo e seducente provocazione. |
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Che
fare. Girando come facevo gli anni scorsi, non vedo più
niente. Il Molise, a cui rivolgevo il mio sguardo negli anni
scorsi per dare un senso al mio abitare qui e non altrove, mi
sembra anch’esso solo un cumulo di rifiuti indifferenziati. |
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Indistinguibile
qualsiasi discorso, formula, memoria, progetto. Disordine.
Il disordine allora? E che vuol dire? Anche per identificare
un mucchio di spazzatura, ci vuole un punto di vista. È
quello che manca, manco io. |
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Ma
che volete che veda? Ma quale amore mi deve cogliere? Ecco la
questione, banale, ma pur sempre fondamentale: per dipingere
si deve amare. |
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Qualcuno,
qualcosa. Avere una visione da contemplare, una immagine da
sognare, su cui far convergere il lavoro dell’immaginazione.
E niente mi attira abbastanza a lungo lo sguardo. Mi distraggo.
Mi disgusto. |
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Poi
sono passati i giorni, le settimane, i mesi. Nel mio gironzolare,
con queste riflessioni sulle spalle, ho iniziato a insinuarmi
quasi mendico in piccoli gruppi umani, fino ad allora solamente
sfiorati. |
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Mi
sono fatto coraggio, mi sono un po’ aperto, e ho cominciato
io stesso a guardare e a leggere molte storie private.
Alla fine mi innamorai di un’idea. Era un’idea incarnata,
una figura sociale, di una umanità avvolgente, immediata.
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Si
trattava di provare a descrivere, con la massima semplicità,
l’immagine di una donna sola, ma decisa a rivestire un
ruolo, pronta ad accettare una sfida. Una “donna fulcro”,
la chiamavo.
Una donna come ce ne sono tante, che fungono da punto di forza
dei piccoli gruppi sociali, dalla famiglia alle amicizie, nel
lavoro e nella passione politica. |
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Donne
capaci di mettere a disposizione la propria forza, la propria
vita, per un’idea, un sogno, o semplicemente per l’altro,
gli altri in generale, nelle piccole necessità dei
giorni che passano.
Donne
capaci di compassione, mi dicevo. Quelle che non hanno paura
della sofferenza, perché la conoscono. Che trovano
il coraggio di amare, perché sono loro che danno vita
all’amore. |
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Sono
le finestre da cui ci si affaccia sul mondo, le porte attraverso
cui vi si accede, i cardini su cui girano le nostre esistenze |
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Non
è stato facile. I dipinti sono andati avanti piano, era
difficile “vedere” le situazioni giuste, raccontarne
la coscienza, l’impegno femminile senza cadere nella retorica
o nell’idealizzazione eccessiva.
La visione ricercata era tutto sommato semplice: una donna al
centro, alcune persone intorno, minimo due. Anche quando fosse
stato di scena l’amore, esso si sarebbe svolto nel sociale,
di fronte a testimoni. Forse l’amore ne ha sempre bisogno;
forse l’amore può esistere solo quando un gruppo
lo accoglie. |
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Ed
eccoli allora: i corpi viventi sulla scena del mondo; i corpi
splendenti che si incontrano nella loro bellezza: è
la carne vulnerabile, indifesa; è la pelle liscia scalfita
dall’accadere dei fatti, ferita dalla luce del sole
o dalle ombre della notte. |
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Qualcosa
è venuto fuori, un po’ poco forse.
Ci sarebbe voluto più coraggio forse, più delicatezza,
più rispetto, più attenzione, più tempo.
Faccio quello che posso. La necessità intanto preme,
si fa pressante, minacciosa. L’illusione dell’arte
barcolla, perde forza, tradisce incertezza e sfiducia. Ma
io resisto ancora. |
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Le
guardo vivere, le guardo sognare, le guardo credere. Le vedo
affannarsi, cadere, riprendersi, ricominciare. Ed io sono
loro grato, perchè mi fanno ancora una volta immaginare
che forse tutto potrebbe essere diverso e migliore, e che
forse, grazie a loro, un giorno tutto cambierà davvero. |
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